Fotografia di Nomisma sulla filiera tra deficit strutturali e potenzialità
Milano, 15 feb. (askanews) – L’olio d’oliva è la Cenerentola dell’alimentare made in Italy. Non usa giri di parole Denis Pantini, responsabile agroalimentare di Nomisma, che ricorre a alla metafora fiabesca per concludere una presentazione che fotografa in maniera puntuale la filiera olivicola italiana. Lo ha fatto in occasione di un convegno organizzato a cinque anni dall’accordo di filiera tra Confagricoltura e Carapelli Firenze, di proprietà dalla multinazionale spagnola Deoleo, per evidenziare i benefici derivanti dalla collaborazione di tutti gli attori.
Il punto di partenza è il calo strutturale della produzione italiana di olio che, secondo Nomisma, nel 2022 toccherà le 208mila tonnellate (stimate) dalle 513mila del 2010. Un calo che vede coinvolte in prima linea tre regioni di peso come Puglia (-52% 2022 su 2021), Calabria (-42%) e Sicilia (-25%). E questo avviene in un contesto di mercato dove invece altri player stanno emergendo grazie agli investimenti produttivi: per capire di cosa parliamo basta vedere come in 10 anni, dal 2011 al 2021, la superficie agricola investita a olivo in Italia sia scesa del 3,5% contro l’aumento del 41,6% del Cile o, rimanendo nel bacino mediterraneo, contro il +5,6% della Spagna che anche sul fronte dell’export, nello stesso decennio, quasi ci doppia in termini di crescita, con +5,7% contro il nostro +3%.
Dietro il calo strutturale della produzione di olio d’oliva, che è un fenomeno globale, ci sono sicuramente le condizioni climatiche avverse ma se guardiamo al nostro Paese non possiamo dimenticare le caratteristiche distintive della filiera, a partire dalla frammentazione produttiva: in Italia, dove l’olivo rappresenta la coltivazione più diffusa, il 40% delle aziende olivicole ha meno di 2 ettari di oliveto e solo il 2,5% oltre 50 ettari, con un tessuto produttivo che spesso è orientato all’autoconsumo.
Con otto chili di consumo pro-capite, tuttavia, siamo il primo consumatore al mondo di olio di oliva e questo rende necessario il ricorso alle importazioni anche se ci confermiamo un grande Paese esportatore con una quota di mercato del 21% (pari a 343mila tonnellate per un valore di 1,5 miliardi) al secondo posto dopo un leader indiscusso come la Spagna che ci doppia con una market share superiore al 42%.
In questo contesto, sottolinea Nomisma, le potenzialità per la nostra filiera olearia restano alte, anche considerando il fatto che a oggi la quota di consumo di olio d’oliva sul totale grassi consumati a livello mondiale è inferiore al 5% con un tasso di crescita che in un decennio si è mantenuto basso. E l’olio d’oliva italiano potrebbe beneficiare anche di un posizionamento molto alto all’estero, dove svetta per percezione in Paesi come Stati Uniti, Germania e Giappone.
Focalizzando, poi, l’attenzione sull’ultimo anno, non vanno trascurati un dato e la congiuntura generale. Il 2022, infatti, sarà ricordato come un anno record per l’export agroalimentare made in Italy che potrebbe sfiorare i 60 miliardi. Parliamo però di una crescita di circa il 15% a valore, all’interno della quale l’olio d’oliva ha segnato un +22% nel periodo gennaio-ottobre che tuttavia si sgonfia al +5,6% se si guardano i volumi. I rincari dei costi energetici e delle materie prime, poi, hanno eroso la redditività delle imprese e generato inflazione al consumo con una variazione del prezzo dell’olio d’oliva del 16% a dicembre 2022 rispetto allo stesso mese del 2021, coi rischi che questo comporta, lato domanda, per i tagli al carrello della spesa tanto quanto per la rimodulazione dei canali di acquisto (con la crescita del discount). Nel caso dell’olio d’oliva, proprio i canali di vendita meritano attenzione perchè la Gdo riveste un ruolo preponderante per le vendite. Al suo interno ancora oggi il 69% del venduto è olio comunitario, il 100% italiano copre una quota del 24,6% mentre le Dop e le Igp si fermano a un 2,4%, lasciando intravedere un forte potenziale di crescita.
Di fronte a una filiera così eterogenea e frammentata, non solo sul versante produttori ma anche della trasformazione, la necessità, secondo Pantini, è quella di intraprendere investimenti e avviare un processo di modernizzazione, incluso un ricambio generazionale, visto che meno del 5% delle aziende è guidata da under 40. Occorre “fare filiera” per contrastare la volatilità dei mercati: a oggi meno del 3% delle imprese agricole ha accordi pluriennali con imprese industriali o commerciali, un ulteriore limite agli investimenti, non solo produttivi, ma anche organizzativi, commerciali e di comunicazione al consumatore. Investimenti necessari affinchè l’olio d’oliva passi dall’essere considerato un “semplice condimento” a un “prodotto-cibo”, le cui scelte d’acquisto non dipendano più prevalentemente dal “fattore prezzo”.