A Milano la mostra sul fotografo francese che guardava Hitchcock
Milano, 2 mar. (askanews) – Una distopia glamour; un racconto per immagini che riesce a contenere in ogni scatto più domande narrative; una ricercata aura di mistero che scivola spesso nel noir. La mostra del fotografo francese Guy Bourdin negli spazi milanesi di Armani/Silos è una sorta di avventura in territori solo apparentemente noti, sia a livello di immaginario visivo, sia di codici della fotografia: situazioni e stili che sembrano riconoscibili al primo sguardo, ma che poi, avvicinandosi, rivelano una pluralità di elementi che innescano dubbi e disturbo, ma anche narrazione romanzesca. Non a caso la mostra si intitola “Storyteller”: ogni immagini contiene una sua letteratura potenziale (avrebbe potuto dire Italo Calvino) e intorno a queste diverse possibilità costruisce il secondo livello della propria forza. Il primo è ovviamente quello tecnico del medium: inquadrature, posa, colori saturi, elementi ricorrenti, come per esempio i manichini (che ci parlano, per esempio, del tema della moda, ma anche, per come li utilizza Bourdin, di qualcosa di sottilmente inquietante, di mondi alternativi che scivolano nei territori della fantascienza). Ci sono spesso le modelle, è vero, ma anche il modo in cui vengono ritratte ci parla di una contro-storia, nella quale le cose sono andate diversamente. E da qui sia aprono le porte della narrazione e dell’immaginazione.
Le fotografie in mostra sono un centinaio, ventuno in bianco e nero, e si calano con grande efficacia negli spazi del Silos, complici anche un allestimento e un’illuminazione che funzionano alla perfezione. Molti i rimandi al cinema, in particolare ad Alfred Hitchcock, di cui Bourdin, nato nel 1928 e morto nel 1991 – mostra di avere appreso molto lucidamente la lezione di sguardo su ciò che siamo soliti chiamare normalità, ma che nei film del regista così come negli scatti del fotografo si rivela essere solo una patina che non riesce più a nascondere il mistero e l’inquietante. Viene anche da pensare, per certi aspetti, all’idea del “perturbante” di Freud, magari aggiornato con la lezione più contemporanea di Mark Fisher sui concetti di strano (“weird”) e inquietante (“eerie”). Tutte sensazioni che tornano nelle fotografie di Guy Bourdin e che lasciano allo spettatore la convinzione di avere visto molto, ma forse ciò che non si è visto è ancora di più. Il principio della narrazione insomma, quel mistero che anima il desiderio di racconti. Che a loro volta ci portano a ricordare che l’arte – se mai dovesse fare qualcosa, il che non è detto – fa proprio questo: stimola le domande e lascia che sia lo spettatore a cercare delle risposte. Molto semplice, forse banale pure: ma è il punto da cui tutto ha inizio.
“Questa mostra – ha detto Giorgio Armani – conferma la mia volontà di fare di Armani/Silos un centro di cultura fotografica contemporanea, includendo ciò che è prossimo al mondo Armani, ma anche ciò che ne è lontano. A prima vista, Guy Bourdin non è un autore a me vicino: il suo era un linguaggio netto, grafico, forte. Nella sua opera quel che si percepisce subito, in superficie, è la provocazione, ma quello che mi colpisce, e che ho voluto mettere in risalto, sono piuttosto la sua libertà creativa, la sua capacità narrativa e il suo grande amore per il cinema. Bourdin non seguiva la corrente e non scendeva a compromessi: un tratto nel quale mi riconosco io stesso, credo non ci sia un altro modo per lasciare un segno nell’immaginario collettivo”.
La mostra nello spazio di via Bergognone è aperta al pubblico fino al 31 agosto.
(Leonardo Merlini)